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Il TESORO del MUSEO del SANTUARIO di SAN VITO LO CAPO:
IL TESORO DELLA DEVOZIONE.


La Devozione del pellegrinaggio e i preziosi doni dei fedeli.

Testo tratto da:
- "Il Tesoro del Santuario di San Vito Lo Capo" a cura di Annamaria Precopi Lombardo, Pietro Messana e Silvia Scarpulla - Edizioni MEETING POINT
- "SAN VITO Indagine su un martire di Cristo dei primi secoli" di Pietro Messana - Edizioni MEETING POINT

La prima meta dei pellegrinaggi del tardoantico, dopo l’Editto di Costantino del 313, erano stati i luoghi santi descritti nei Vangeli; altre mete erano le tombe dei martiri e dei testimoni della fede, in particolare le catacombe romane dove erano seppelliti i cristiani vittime delle persecuzioni imperiali.
Accanto alla venerazione delle tombe si diffuse in Europa, soprattutto a partire dal V secolo, il culto delle reliquie, parti del corpo (reliquie di prima classe) o oggetti che erano entrati in contatto o erano appartenuti ai personaggi evangelici o ad un defensor fidei, a un santo martire o a un confessore (reliquie ex contactu). Sono state spesso le reliquie che hanno conservato la memoria o hanno diffuso il culto di un santo; ad esse vengono attribuite virtù taumaturgiche che trovano giustificazione teologica nei Vangeli e negli Atti degli Apostoli (Mc 9, 20-22; At 19, 11-12). Contemporaneamente alla pietà per i resti mortali o gli oggetti di dubbia provenienza storica, si andò sviluppando una forma di pellegrinaggio minore che consentì a strati più vasti e meno informati di partecipare al “grande viaggio” per testimoniare la propria fede e la devozione sincera per i luoghi dove un santo era nato, era vissuto o aveva subito il martirio.
Il suffragio ai santi martiri, in quelle chiese dove si conservavano le reliquie, aiutava il malato a volte fino alla guarigione (domanda e intercessione miracolosa). Il pellegrino era un “povero di Dio” perché per il viaggio doveva sentirsi spogliato di ogni suo bene materiale e prepararsi ad essere un uomo nuovo che, guarito o ancora infermo, avrebbe trovato conforto e forza nella fede rinnovata.
Il deus loci di antica memoria pagana diventa per il cristiano e le popolazioni locali il “Santo” che in quei luoghi è vissuto o ha trascorso una parte della sua vita o vi ha subito il martirio; così ne diventa il patrono e il protettore. La nascita di un piccolo o di un grande santuario determinerà e potenzierà la “devozione itinerante” e genererà il bisogno di venerare il santo e offrire doni per impetrare una grazia o testimoniare per quanto ottenuto; come nell’antichità classica, attorno al luogo di culto cristiano, se extra urbano, cresce e si sviluppa un modesto centro abitato, dove risiedono coloro che sono al servizio del Santuario.
Se il monumento commemorativo è inserito in un contesto urbano, il centro cittadino si amplia e si realizzano dei grandi santuari, la città diventa la città del “Santo” e spesso finisce col determinare un agiotoponimo; esemplare potrebbe essere nel nostro caso Capo San Vito che potrebbe aver preso il nome dal martire Vito, prima della dominazione musulmana.
Il paese di San Vito Lo Capo è un tipico esempio di una comunità che cresce e si sviluppa attorno ad un santuario.
San Vito, nell'antica Diocesi di Mazara, è considerato una presenza significativa sia per la devozione diffusa che per la sua biografia. Molti centri cittadini hanno una chiesa intitolata al Santo e lo acclamano Patrono; soprattutto tra il Cinquecento e il Seicento si ebbe una diffusione capillare del culto e della devozione a San Vito.
Nella tradizione della Chiesa romana il dies natalis del santo martire Vito, legato al Sacramentarium gelasianum - attribuito al berbero Papa Gelasio, riproposto in Simmaco e Gregorio Magno - è collocato al 15 giugno già dalla fine del secolo V o ai primi del VI. A questi papi si fa risalire la tradizione “alta” della Passio di Vito; grazie a questo inserimento e riconoscimento il culto del giovane Vito ebbe diffusione europea e i luoghi della sua vita o quelli che ne custodivano la memoria o le reliquie entrarono a far parte della geografia del Santo.
Nel territorio della Sicilia Occidentale la diffusione del nome e del culto potrebbe essere legato alla presenza del pozzo cosiddetto di San Vito e alla ricca sorgiva di Macari, soste obbligate delle navi da trasporto che provenivano dall’alto Tirreno e dovevano raggiungere le coste africane.
Avremmo così una prima diffusione popolare attraverso i marinai che in quelle piane e nelle insenature del golfo potevano trovare non solo l’acqua, ma viveri e rifugio dalle tempeste e dalle insidie dei predoni del nord Africa che percorrevano il Mediterraneo. Il toponimo è stato individuato su una carta geografica araba del 1070 e nei secoli successivi è rimasto l’uso del nome, segno di una presenza e di una devozione che la chiesa-fortezza di San Vito attestano attraverso la storia del monumento.
Durante la dominazione musulmana l’agiotoponimo potrebbe essere rimasto perché rientrava nel patrimonio linguistico delle marinerie mediterranee. Il luogo solitario dell’estrema Sicilia Occidentale, spiaggia e territorio di antichi silenzi, è stato sede di una piccola comunità cristiana che ha forse conservato memoria del martire Vito e che ha avuto un ruolo e una funzione che lo collocano tra le mete dei pellegrinaggi minori dalla fine del VII secolo.
Il giovane Vito è uno dei santi del tardo antico del quale si diffuse ben presto il culto e a lui viene tributato un particolare rilievo nel quadro narrativo della sua vicenda umana. Vito fu oggetto di culto e di invocazioni fin dalla fine del secolo V, ma le notizie di questo periodo sono scarse. Solo dopo il VII secolo è attestato come siciliano di famiglia pagana, ma educato alla fede cristiana dalla nutrice Crescenza e dal precettore Modesto. Il martirologio romano indica la Lucania come luogo originario del suo culto. Una recente tesi ascrive il suo martirio al periodo delle persecuzioni vandaliche del V secolo e lo propone come fuggiasco dall'Africa vandalica per aver rifiutato di accettare la dottrina ariana del padre e del sovrano. Nell’Africa settentrionale l'avvento dei Vandali, cristiani ariani, determinò contrasti feroci tra il clero di obbedienza e dottrina romana, quello bizantino e quello ariano con persecuzioni e scontri non disgiunti da influenze politiche ed economiche.
Alla fine del primo millennio i luoghi santi e i santuari che custodivano memorie insigni di apostoli o santi martiri diventarono meta del pellegrinaggio devoto e penitenziale, non più individuale, ma una vera organizzazione di grandi gruppi di pellegrini che percorrevano le stesse strade, risedevano nelle stesse strutture e soprattutto visitavano gli stessi luoghi di pietà e devozione.
Si andava in pellegrinaggio non solo per visitare un luogo santo per devozione (benedizione e lode), ma per sciogliere un voto (ringraziamento), per impetrare una grazia (intercessione) e ricevere il perdono dei peccati (penitenza).
Dopo l’anno Mille altre mete furono inserite per “il viaggio” o furono visitate dai pellegrini lungo il cammino; nel Medioevo la più celebre di queste mete fu Santiago di Compostela, che insieme a Roma e a Gerusalemme divenne la destinazione più significativa per importanza religiosa e per numero di visitatori.
Il promontorio dell’Egitarso che probabilmente era indicato con il nome di Monte San Vito già nella prima metà del VI secolo, potrebbe aver accolto i primi pellegrini nel corso del secolo successivo. Ormai non erano più le tombe dei martiri, ma si faceva memoria anche per una sacra immagine ritenuta miracolosa dalla tradizione; ma erano le reliquie la vera attrazione del pellegrino medievale, che facevano accorrere i fedeli e arricchivano il territorio e la chiesa che le custodiva.
La conservazione delle reliquie offerte alla venerazione dei fedeli-visitatori ha determinato nel corso dei secoli la produzione di un'oggettistica specifica.
I contenitori dovevano essere preziosi per suscitare la meraviglia e rendere omaggio alla “memoria” di quanto in essi contenuto.
Significativa è la funzione svolta dai Benedettini per la diffusione del culto di San Vito presso i Longobardi e il dono di ossa dello stesso Santo ai Franchi da parte dei pontefici.
Erano ragioni politiche che consentivano di dialogare con i sovrani e proteggere l’opera missionaria di monaci e predicatori.
La reliquia di un santo proteggeva il Sovrano e la sua dinastia (aspetto politico), il popolo (devozione popolare), i malati (effetto taumaturgico), determinava l’arricchimento di quella chiesa a cui affluivano ex voto per le offerte dei fedeli che consentivano il mantenimento e l’ampliamento della chiesa (aspetto economico).
Nei secoli XV e XVI per la conservazione delle reliquie si sviluppò soprattutto la produzione delle cosiddette casse o arche, quella dei reliquari a busto e quella dei reliquari antropomorfi che contenevano prevalentemente frammenti ossei e nella forma testimoniavano la parte custodita.
Per questo tipo di reliquie i mastri argentieri siciliani nei secoli XV, XVI e XVII hanno prodotto pregevolissime opere. Di gran lunga minore la produzione del secolo XVIII, che si caratterizza soprattutto per la presenza della vetrina che rende il reliquario architettonicamente simile all’ostensorio.
La produzione delle importanti opere di argenteria servì anche per mettere ordine nella diffusione delle reliquie dopo il Concilio di Trento, che impose un severo controllo su quello che nel Medioevo era stato un proficuo commercio del sacro.
Nel Museo di San Vito è presente una stauroteca che contiene un frammento della croce. Tra gli altri manufatti troviamo due reliquari di produzione trapanese del secolo XVIII.
Il primo è opera di uno dei migliori argentieri trapanesi che operò ad Alcamo è Trapani, Nicolò Bonaiuto.
Nella collezione del Museo di San Vito il reliquario più antico è quello a busto del Santo omonimo; è un’opera in argento della prima metà del secolo XVII storicamente attestata da Antonio Cordici e da una iscrizione “LEONARDU FONTANA PROCURATORI AMBROSIO DI LIONE COLO 1628”. Il reliquario si inserisce nella tradizione dei reliquari antropomorfi, opere cinquecentesche e del primo Seicento, ed è segno tangibile di una particolare devozione al Santo da fedeli provenienti da luoghi anche molto distanti e che celebravano la sua memoria nel piccolo santuario per il quale avevano fatto realizzare l’opera.
Nel Museo di San Vito è esposto un pregevole ostensorio marchiato a Palermo dal console Giacinto Omodeo nel 1708.
L'oggetto trova la sua origine nella festa del Corpus Domini canonicamente istituita nella seconda metà del secolo XIII, ma si sviluppa come oggetto liturgico diffuso solo nel corso dei secoli XIV e XV.


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